Lo scorso 8 settembre i deputati dell’Europarlamento hanno discusso con la Commissione sul tema dei controlli alle frontiere. In particolare, al centro del dibattito – che, come prevede la procedura, non ha avuto come seguito una risoluzione – c’era l’analisi delle implicazioni per il futuro dell’area Schengen a fronte della reintroduzione dei controlli alle frontiere da parte di vari Paesi membri dell’Unione Europea.
IL CONTESTO DEL DIBATTITO
Al momento sono dodici i Paesi membri che hanno introdotto alcune forme di controllo alle frontiere interne, pur facendo parte dell’area Schengen. Un numero non indifferente se pensiamo che, in totale, l’area di libero scambio Schengen comprende ventinove paesi: venticinque Stati membri dell’UE (tutti tranne Cipro e Irlanda) più Islanda, Liechtenstein, Norvegia e Svizzera. L’Italia, ad esempio, è tra i Paesi membri dell’Unione Europea che hanno reintrodotto alcune forme di controllo. In questo caso i controlli sono partiti il 19 giugno di quest’anno (con data formale di interruzione il 18 dicembre 2024) e riguardano la frontiera con la Slovenia. I motivi di questa decisione sono pertinenti al rischio di attività terroristiche legato alle turbolenze in Medio Oriente e al possibile rischio di infiltrazioni nei flussi migratori irregolari. Inoltre, altro tema che ha portato il Governo italiano a far ripartire i controlli su questa frontiera riguarda il rischio di violenza legato al proseguimento della guerra in Ucraina e all’attuale presidenza italiana del G7. La stessa Germania il 9 settembre scorso ha comunicato, attraverso il Ministero federale dell’Interno tedesco, il ripristino dei controlli su tutte quelle frontiere che a quel momento ancora non lo prevedevano. Infatti, la Germania aveva già in vigore controlli alle frontiere con Francia, Polonia, Repubblica Ceca, Austria e Svizzera. I motivi riguardano principalmente l’aumento della migrazione irregolare e del traffico di migranti, anche in relazione alle cattive condizioni di vita nei Paesi di provenienza. Resta poi l’attenzione al conflitto in Ucraina, oltre alle criticità legate al terrorismo internazionale e alla situazione in Medio Oriente. La mossa tedesca di ampliare i controlli non è passata di certo inosservata, soprattutto perché legata alla limitazione dell’immigrazione irregolare nel Paese e al controllo e all’innalzamento della sicurezza interna. Un’iniziativa che, per il ruolo centrale e per la centralità geografica della Germania, ha suscitato diverse preoccupazioni soprattutto in relazione al futuro dell’area di libero scambio Schengen.
LA PROCEDURA DI RIPRISTINO DEL CONTROLLO
Naturalmente, la decisione del ripristino del controllo delle frontiere interne – o di parte di esse – ha un retroterra normativo comune agli Stati membri dell’Unione Europea e, in particolare, dell’area di libero scambio Schengen. La procedura è contenuta nel Codice Frontiere Schengen (CFS) che offre agli Stati membri proprio la normativa per avviare il ripristino temporaneo del controllo alle frontiere interne, sempre a fronte di una grave minaccia all’ordine pubblico o alla sicurezza del Paese. In ogni caso si tratterebbe di una procedura che deve essere mantenuta come ultima ratio e che comunque dovrebbe seguire e rispettare il principio comune di proporzionalità con la minaccia. Inoltre, il ripristino del controllo deve avere dei limiti ben precisi legati alla base giuridica che ne rende necessaria l’introduzione. Per l’Italia, ad esempio, il controllo alla frontiera con la Slovenia dovrebbe cessare – sempre che non si protragga il rischio – il 18 dicembre prossimo.
Questa misura, in ogni caso, è uno dei temi sui quali la Commissione, e quindi le Istituzioni europee, non hanno altra voce in capitolo se non l’emissione di un parere. La decisione di ripristinare i controlli ad una frontiera interna è, infatti, prerogativa dei singoli Stati membri dell’area di libero scambio Schengen. La Commissione, dal canto suo, non può porre alcun veto, ma solo produrre un parere sulla reale necessità di questa misura e sul grado di proporzionalità rispetto ai rischi e alle minacce.
IL CONTROLLO E LA SICUREZZA INTERNA
L’interesse dei Paesi membri verso la tutela e lo sviluppo dell’area di libero scambio Schengen è innegabile. Si tratta di un risultato dell’Unione Europea che non può essere sottovalutato e che, anzi, andrebbe maggiormente rafforzato. Ma questo senza dimenticare le prerogative e le giuste aspettative degli stessi Paesi membri dell’UE, sempre più interessati a mantenere ampio margine di sovranità nazionale su alcuni temi. Tra questi c’è sicuramente la volontà, sempre più generalizzata tra le cancellerie europee, di voler attuare delle misure più stringenti ed efficaci per un controllo più capillare dei vari canali di immigrazione. Una necessità tanto più impellente se lo Stato in questione si trova al limite dell’area di libero scambio Schengen e, quindi, sempre più soggetto alle rotte migratorie e ai flussi dell’immigrazione clandestina. La pressione migratoria e il traffico di esseri umani hanno indiscutibilmente anche delle conseguenze sociali interne ai singoli Paesi membri, che possono portare, nel tempo, a sviluppare criticità e problematiche profonde sul fronte della sicurezza interna. Si pensi, ad esempio, all’influsso della criminalità organizzata internazionale, così come ai traffici di sostanze stupefacenti e a quello di esseri umani con il fine di alimentare il circuito della prostituzione. Sono tutti elementi, questi, nei confronti dei quali gli Stati membri dell’Unione Europea stanno sempre di più manifestando la loro volontà di incrementare profili di autonomia e sovranità nazionale. Senza poi citare quali possano essere i rischi di collusione tra i flussi e il sistema dell’immigrazione clandestina con la crescente commistione tra criminalità organizzata e terrorismo internazionale. La sicurezza interna passa, quindi, anche dai controlli alle frontiere interne – senza dimenticare quelle esterne all’Unione Europea, di cui parleremo a breve – che si configurano nel tempo anche come strumento di protezione e preservazione dei più basilari valori storici, culturali e civili dei Paesi membri dell’Unione Europea.
DAL CONTROLLO DEI CONFINI INTERNI ALLA DIFESA DI QUELLI ESTERNI
La questione delle frontiere e della loro protezione deve passare attraverso un processo, utile e forse ormai impellente, di ridefinizione delle priorità, dapprima dei Paesi membri e poi delle Istituzioni dell’Unione Europea. Il controllo delle frontiere interne, anche a fronte della procedura dettata dagli accordi sull’area Schengen, rappresenta uno strumento limitato in mano ai Governi. La priorità è da rivedere, in modo che lo sforzo impiegato per i controlli delle frontiere interne all’area di libero scambio Schengen, si sposti alla difesa dei confini esterni dell’Unione Europea, con uno sguardo più attento a tutti quei Paesi (in particolare della fascia mediterranea) che fungono da vera frontiera e scudo nei confronti del fenomeno dell’immigrazione clandestina in tutte le sue sfaccettature. Passare, quindi, dal monitorare principalmente i movimenti interni all’Unione Europea, al controllare in prima battuta gli accessi all’area dell’Unione, puntando sugli strumenti in mano agli Stati frontalieri.
Una base importante, in questo processo di slittamento della prospettiva e della priorità, può essere ricercata all’interno dei dati dell’operazione Frontex che, ad esempio, certificano che la strategia messa in campo dal Governo italiano sia assolutamente efficace. La concentrazione delle energie su una dimensione esterna del fenomeno che punti soprattutto a bloccare le partenze dei migranti irregolari, prima ancora di controllarne e certificarne l’accesso all’interno dell’Unione, rappresenta proprio quel cambio di prospettiva che può fare la differenza a livello di politiche migratorie. Un’azione che sia razionale e basata sui dati, non sulle ideologie che bloccano quella che potrebbe essere un’efficace azione esterna delle politiche che nascono sul suolo europeo. Una cooperazione che sia realmente paritaria con i Paesi di partenza o di transito dei migranti, elemento che, come nel caso del Piano Mattei, rappresenta il vero fulcro di quella che dovrebbe diventare la logica e la capacità europea di incidere sul fenomeno della migrazione illegale, creando nei luoghi d’origine dei migranti il loro sacrosanto diritto e le condizioni minime necessarie per decidere di non migrare.