L’estate sta ormai volgendo al termine e le temperature miti lasciano il posto alla pioggia e alle prime avvisaglie di maltempo e freddo.
Purtroppo, però, il normale ciclo delle stagioni di quest’anno porta con sé ansie e preoccupazioni, se si considera che la più grande crisi energetica che il mondo ricordi dal dopoguerra ad oggi non si è verificata.
Ed è proprio una guerra, scaturita dall’invasione russa dell’Ucraina, all’origine di questa nuova, devastante, crisi.
Devastante perché a pagarne le conseguenze saranno probabilmente quei Paesi, Italia e Germania in testa, che nel corso del tempo hanno deciso di affidare la fornitura del loro fabbisogno di gas alle mani della Russia.
E anche se le forniture di Gazprom continueranno, non saranno sufficienti a fermare completamente il folle aumento dei prezzi a cui stiamo assistendo.
Questo significa un enorme impoverimento per le famiglie e soprattutto la chiusura di numerose aziende che non sono in grado e non potranno far fronte ai nuovi costi. Stiamo parlando di aumenti fino a 10 volte il prezzo dell’anno precedente, una tendenza davvero insostenibile per tutti.
Ma la guerra è davvero la causa di tutto questo, o le cause sono da ricercare in un sistema che era comunque sbagliato in partenza? Se guardiamo al problema, si tratta di un problema europeo e non riguarda solo il gas acquistato in Russia, ma tutto il gas.
A ben vedere, infatti, l’aumento è il risultato delle politiche di liberalizzazione, che hanno affidato il prezzo del gas alla borsa del gas di Amsterdam.
In pratica, su base giornaliera, gli operatori stabiliscono il costo previsto del gas e lo vendono a quel costo. Chiaramente in un periodo di guerra, con Gazprom che minaccia di interrompere le forniture, che comunque ha già ridotto il flusso giornaliero, provocano un aumento costante del prezzo. Anche se il costo di produzione del gas rimane invariato, è il mercato a stabilirne il valore, con la benedizione di chi, ovviamente, specula e si arricchisce in situazioni come questa.
In un momento come quello attuale, è quindi evidente che la crisi, seppur generata da una guerra, è la naturale conseguenza di politiche che hanno affidato quasi il 50% del fabbisogno energetico alla Russia.
E mentre domani il problema potrebbe essere risolto con l’utilizzo di fonti alternative, dall’eolico al solare, dall’idroelettrico al nucleare pulito, oggi dobbiamo fare i conti con la realtà.
Attualmente in Italia le fonti energetiche alternative coprono circa il 20% del fabbisogno, il secondo valore più alto di copertura energetica da fonti rinnovabili rispetto ai principali Stati dell’Unione Europea (Germania, Spagna e Francia, che però ha il nucleare) grazie soprattutto all’energia idroelettrica, mentre il resto è costituito da petrolio e gas.
Pertanto, attualmente non esistono le condizioni per fare a meno dell’energia fossile.
Come contrastare la crisi annunciata e prevista mantenendo le sanzioni contro la Russia?
Una delle soluzioni di emergenza è certamente quella di acquistare gas dagli Stati Uniti, che lo hanno già messo a disposizione, ma questo richiede l’utilizzo di degassificatori, centrali in grado di riportare il gas liquido allo stato gassoso. In Italia ne sono attualmente in funzione tre, che non sono sufficienti a soddisfare la domanda. Per questo motivo è stata prevista l’attivazione di altri due impianti, a Piombino e Ravenna, ma purtroppo, a causa della burocrazia, i tempi di costruzione e attivazione continuano ad allungarsi e c’è il rischio di non arrivare in tempo.
Per contrastare l’emergenza, quindi, molti Stati membri dell’UE hanno presentato una serie di misure, alcune delle quali sono condivise da tutti, altre no.
Vediamoli in dettaglio
1. Ridurre il consumo di elettricità limitando l’offerta;
2. Limitazione dei ricavi dell’elettricità non generata dal gas (comprese le energie rinnovabili);
3. Contributo di solidarietà da parte delle aziende produttrici di combustibili fossili;
4. Aumento della liquidità per le società energetiche;
5. Limitazione del prezzo del gas;
Cinque misure che dovevano rappresentare un punto di partenza su cui lavorare al Consiglio straordinario dei ministri dell’Energia del 10 settembre.
Uno dei punti chiave, tuttavia, sarebbe stato un indice di riferimento per il prezzo del gas naturale liquefatto (GNL) svincolato dal Ttf di Amsterdam, che lo avrebbe probabilmente messo al riparo dalla speculazione e avrebbe permesso la creazione di un benchmark rappresentativo e ampiamente utilizzabile del prezzo del GNL per le forniture a termine nell’Unione.
Al momento le proposte più importanti, ovvero il tetto al prezzo del gas e l’uscita dal Tft, si sono arenate per il netto rifiuto di alcuni Paesi, Olanda e Germania in particolare, che non ritengono opportune queste scelte perché danneggerebbero le loro economie nazionali.
L’ennesima situazione di divisione su questioni centrali per l’Europa, che dimostra come l’UE si trovi attualmente in una fase particolarmente critica e come sia eccessivamente influenzata dalle nazioni del Nord Europa e dalla Germania in particolare.
L’ultimo atto del Cancelliere tedesco è stato infatti lo stanziamento di un fondo di 200 miliardi per compensare l’alto prezzo dell’energia, un fondo che creerebbe un disastroso effetto domino per altri Paesi e per l’UE.
La scelta di Scholz, infatti, non solo mette a dura prova la già debole solidarietà europea, ma distorce anche il mercato, visto che grazie a questo fondo le aziende tedesche potranno produrre a costi inferiori rispetto ai loro concorrenti europei e in particolare agli italiani, e che potrebbe portare a un effetto domino da parte degli altri Paesi nel tentativo di proteggere a loro volta i propri interessi nazionali.
Le polemiche riguardano anche Ursula Von der Leyen, presidente tedesca della Commissione europea, accusata di aver ignorato la lettera con cui 15 Paesi chiedevano una proposta formale sul tetto ai prezzi del gas.
Ottobre sarà quindi il mese cruciale per le scelte politiche e per la solidità dell’Unione Europea e, come ammette anche l’attuale Presidente del Consiglio italiano Mario Draghi, che probabilmente rappresenterà l’Italia per l’ultima volta al vertice del 7 ottobre, le previsioni sono tutt’altro che ottimistiche sulla reale coesione e unità di vedute dei vari capi di governo.
In ogni caso, la partita, seppur difficile, è certamente tutta da giocare: il 30 settembre c’è stata la prima riunione dei ministri responsabili delle questioni energetiche dei Paesi membri, per cercare di delineare un primo punto di partenza per quello che dovrebbe essere il percorso dell’UE nell’affrontare la crisi.
L’incontro ha visto unito il fronte del price cap e comunque la necessità di scelte comuni e condivise. In particolare, il ministro francese Agnes Pannier-Runacher ha dichiarato: “È in corso un’intensa attività diplomatica, ne ho parlato con i miei omologhi belgi, tedeschi, spagnoli, italiani, polacchi, rumeni e cechi, siamo tutti consapevoli di avere una responsabilità, quella di difendere le nostre aziende e la nostra industria, e di creare una solidarietà europea intorno a queste questioni energetiche”.
Una dichiarazione che contrasta quindi con le scelte della Germania, che ha comunque ribadito il proprio no al Price Cap.
Anche il probabile prossimo premier italiano, Giorgia Meloni, invita gli Stati membri a mostrare un maggiore senso di responsabilità, perché “nemmeno gli Stati membri che appaiono meno vulnerabili dal punto di vista finanziario possono offrire soluzioni efficaci a lungo termine in assenza di una strategia comune”, dichiarazioni che segnano una continuità con il lavoro svolto finora da Mario Draghi.
Presto toccherà alla Meloni difendere gli interessi del nostro Paese e ribadire la necessità, oggi più che mai, che il bene comune non prevalga sugli interessi dei singoli, e chissà che non trovi nei francesi i suoi migliori alleati.
Speriamo solo che non sia troppo tardi.
FEMO
The text was translated by an automatic system